CRIMINI & MISFATTI

Ottobre 1984, la “banda della collina” comincia a terrorizzare Torino e provincia

Se Bologna ha avuto la banda della Uno bianca, il Veneto la mala del Brenta, Milano la Comasina e Roma quella della Magliana, a Torino ha imperversato la banda della collina: l’ennesima accolita capace di seminare il terrore ovunque passasse e che i giornali, parafrasando il capolavoro cinematografico del 1971 di Stanley Kubrick, hanno immediatamente ribattezzato Arancia meccanica sotto la Mole.

Il risultato di un anno intero di paure, fra l’ottobre 1984 e il novembre 1985, sono 34 rapine, due omicidi, violenze di ogni tipo nei confronti delle vittime, oltre due miliardi di vecchie lire di bottino. L’epilogo va in scena durante una notte del 1985, l’anno in cui Torino piange i morti dell’Heysel, lo stadio di Bruxelles dove il 29 maggio muoiono 39 persone, di cui 32 italiani, colpevoli solo di voler assistere alla finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool. La notte del 26 novembre di quell’anno Mario Selis, con la complicità di Vito Geraldi, Fabrizio Melchiorre e Gianfranco Nicola, dà l’assalto all’abitazione del dentista Mario Garzino Demo. All’interno in quel momento si trovano la moglie Maria Teresa Molaschi, insegnante di 49 anni, la colf Trinidad Carmona di 26 e il figlio Marco di 20, matricola universitaria di Medicina. È proprio il giovane a recuperare da un cassetto una pistola, con cui tenta di opporsi ai banditi. Madre e domestica vengono colpite a morte.

La banda debutta ufficialmente il 7 ottobre 1984, mostrando di cosa è capace con una rapina alla birreria Il Cartoccio di corso Lecce, a Torino: i clienti, sotto la minaccia delle armi, sono derubati di portafogli e preziosi. Due giorni dopo si replica con un’irruzione nella birreria Excalibur, mentre il 19 dello stesso mese è la volta del ristorante da Gigi, ad Alpignano. A quel punto, la gang comincia a concentrarsi su abitazioni isolate dei paesi della cintura: Fiano, Lombardore, Volpiano, San Carlo Canavese. Fra un colpo e l’altro, resi sempre più sicuri da imprese che iniziano a fruttare denaro, provano la loro forza svaligiando anche un paio di supermercati.

Il 19 marzo 1985, Selis e Geraldi, 27 anni, titolare di una piccola ditta di catramatura, fanno una puntata a Novara dove assaltano un negozio di preziosi. E si ripetono il 16 aprile alla gioielleria Valcavi di Torino. Quindi tornano ad occuparsi di ville isolate, questa volta concentrate sulla collina torinese. Prediligono abitazioni in cui sanno di trovare donne sole: le immobilizzano e tentano violenze sulle più giovani.

Tra le vittime finisce anche la famiglia dell’ex assessore comunale all’Urbanistica Silvano Alessio, così quella del commerciante Aldo Provera e del dottor Jontif Hutter. A Maria Albanese Gandini rompono un timpano con uno schiaffo; alle cameriere filippine di Alessio mostrano le armi, poi le legano in cucina e portano via tutto ciò che possono: pellicce, preziosi e anche un videoregistratore. È un crescendo che si conclude tragicamente il 26 novembre 1985, in strada della Viola, a poche centinaia di metri dal parco della Maddalena, affascinante punto panoramico al confine fra Torino, Moncalieri e Pecetto Torinese, nell’abitazione del dentista Mario Garzino.

In casa, in quel momento ci sono il figlio Marco, la moglie Teresa Molaschi e la colf Trinidad Carmona. L’altro figlio Paolo, 17 anni, studente al liceo scientifico, è da amici, mentre il dottor Mario Garzino Demo, 55 anni, è al lavoro nel suo studio di corso Sclopis. La loro è una famiglia di medici: il fratello Alessandro è oculista, il cognato è il professor Mario Molaschi, chirurgo con studio in corso Bolzano. Sono le 18.30 di un freddo pomeriggio, fuori è buio da un po’. I banditi posteggiano le vetture a qualche centinaio di metri dall’obiettivo, poi si inoltrano a piedi nel bosco. La villa a due piani con mansarda è circondata da un ampio giardino, protetta da un muraglione e da una cancellata. Ma sul lato posteriore, che dà sulla macchia, cemento e sbarre sono sostituiti da una rete. Non è difficile ai malviventi superare l’ostacolo e inoltrarsi nel giardino. Passano accanto alla piscina, si avvicinano alla porta a vetri dell’ingresso. Uno di loro inciampa in una bombola del gas e la fa cadere.

Nel silenzio, il tonfo all’interno della casa ha l’eco di un boato. Marco è nel soggiorno con la mamma, mentre la governante sta stirando in cucina. Nessun dubbio su quel rumore: c’è qualcuno fuori, appena oltre la porta d’ingresso. Il ragazzo corre al piano di sopra ed estrae da un cassetto una pistola che il padre ha acquistato dopo l’ultimo furto subito. Intanto, la madre chiude a chiave la porta a vetri. All’esterno i rapinatori capiscono di essere stati scoperti, ma non rinunciano all’assalto: uno rimane indietro, mentre Selis e Geraldi raggiungono la porta. Marco li sente urlare, accanirsi a calci contro la serratura dell’uscio. Afferra l’arma, scende. È ancora sulle scale quando si trova davanti due figure coperte dai passamontagna. Impugnano una pistola. All’altezza della cucina, i due cominciano a sparare, il ragazzo d’istinto risponde al fuoco. Sono attimi d’inferno. Le pallottole dei banditi freddano le due donne: la moglie del dentista viene uccisa da Geraldi e la domestica che si trova nella cucina adiacente all’ingresso dal capo della banda. Il figlio Marco viene sfiorato da alcuni proiettili, ferisce il rapinatore, poi cerca rifugio in cantina: «Mi sono inginocchiato dietro la porta, i delinquenti mi hanno tirato addosso ancora una volta, poi sono scomparsi», racconterà qualche ora dopo agli investigatori.

Da La Stampa del 27 novembre: «I rapinatori fuggono, dimenticano nella villa un passamontagna e una pistola. Silenzio, sangue, morte: in quest’atmosfera allucinante il giovane Marco ha ancora la forza di vincere dolore e paura, telefona ai carabinieri. Scatta l’allarme, tutti gli ospedali sono avvertiti. Alle 19.10, una Dyane azzurra scarica davanti al Santa Croce di Moncalieri un uomo barcollante e sanguinante e riparte subito. Il ferito è Selis. Guarirà in 30 giorni: ha avuto fortuna».

A portare il bandito sardo in ospedale non sono i complici, bensì un automobilista di passaggio: ignaro di quanto è accaduto, si imbatte in Selis qualche centinaio di metri oltre la villa: «Barcollava, sanguinava, ha detto di essere stato investito da un’auto pirata, mi ha pregato di condurlo all’ospedale di Moncalieri. Solo quando siamo giunti davanti ha detto: “mi hanno sparato”», conferma l’uomo ai carabinieri.

Nel frattempo, nella villa giungono le forze dell’ordine e i soccorsi. Ma per le due donne non c’è più nulla da fare: sono morte praticamente sul colpo. Maria Teresa Molaschi era una professoressa di lettere al liceo classico Gobetti e sino al 1970 aveva insegnato italiano e latino al liceo scientifico Segrè. Proprio al Gobetti si era prodigata per la realizzazione dei giornalini di classe, perché era convinta che la funzione educativa dovesse andare oltre i libri e riteneva indispensabile portare la realtà quotidiana in aula: la politica, i grandi fatti, la cronaca di città.

Dice un’insegnante che la conosceva da ormai 15 anni: «Reagiva con obiettività invincibile, condannando la violenza. E sapeva trasmettere la convinzione che certe situazioni possono essere superate. Apprendevamo di situazioni familiari complicate e dei problemi di alcuni ragazzi proprio da lei, grazie alla sua capacità di tranquillizzare, d’accender confidenza». (La Stampa, 28 novembre 1985).

L’altra vittima, Trinidad Garmona, da cinque anni non faceva ritorno in Costarica, suo paese natale. Aveva lasciato San José nel 1980, perché a Torino le avevano trovato un lavoro ricercatissimo e ambitissimo dalle sue parti: fare la colf in una villa della collina. «La giovane governante – scrive il reporter in occasione delle esequie – era aderente all’Apicolf, l’organizzazione cattolica che raggruppa le collaboratrici domestiche sudamericane e africane. Singhiozzi, lacrime, disperazione hanno scandito la cerimonia. Accanto a questi sentimenti, pure l’incredulità e la paura. Esternate dai commenti, sul sagrato, della gente che, come i Garzino, vive in case isolate nel verde attorno al Colle della Maddalena. Diceva una coppia: Pazzesco morire così, più pazzesco ancora, pensare che ogni sera lo stesso terribile destino può capitare ad ognuno di noi. Ormai, abitare nelle ville è come stare sempre in trincea, sempre con il cuore in gola al minimo rumore sospetto» (La Stampa, 30 novembre 1985).

Selis viene rinchiuso nel reparto detenuti delle Molinette e interrogato. Ma si dimostra duro, violento, strafottente. Come scrive Ezio Mascarino il giovane apre bocca solo per dire: «”Ho sparato perché il figlio della padrona era armato”. Invano la polizia tenta di fargli rivelare i nomi dei complici. Ad ogni nome pronunciato da Sassi e dal collega Faraoni il rapinatore risponde: “No, quello non c’era”» (La Stampa, 30 novembre 1985).

Selis ha una fedina penale lunghissima, nonostante abbia soltanto 24 anni. La sua prima aggressione risale a quando ha dieci anni, nel suo paese natale: strappa la borsetta a una passante. Bottino: duemila lire. Da quel giorno colleziona 31 denunce per furto, ma non può essere perseguito in quanto minore di 14 anni. Ogni volta i poliziotti lo riconsegnano alla madre che alla fine lo spedisce al Nord, a Torino, dalla sorella Giuseppina. «È tutto inutile – riporta Beppe Minello – il 14 gennaio 1976, quindicenne, Selis entra per la prima volta al Ferrante Aporti per rapina. Torna a casa 12 giorni dopo, ma a marzo è di nuovo arrestato per rapina. Altre 4 volte, in un anno e mezzo, rapina e ruba, entra ed esce dal carcere dei minori» (La Stampa, 6 dicembre 1985).

La sua carriera criminale non si ferma: torna ancora ad Oristano e assieme a due complici assalta l’ufficio postale: arrestato, è condannato a un anno e successivamente a un anno e nove mesi. Ancora Minello: «Quando esce va a lavorare con il cognato, Pietro Geraldi nel supermarket “Record”. Un lavoro che dura poco, perché nel blitz contro il clan dei catanesi del dicembre ‘84 (vengono arrestati centinaia di malavitosi), cade anche Pietro Geraldi e il supermarket viene chiuso. In giugno si sposa, ma non abbandona l’antica strada».

Nonostante la reticenza di Selis, gli investigatori riescono nel giro di 24 ore a risalire al suo braccio destro, Vito Geraldi, 27 anni, originario di Burgio, in provincia di Agrigento, fratello di quel Pietro che gli aveva procurato un lavoro: è incensurato e viene fermato e interrogato anche lui. Da ragazzo ha frequentato i primi due anni dell’istituto alberghiero, poi ha scelto di cercarsi un lavoro.

Da apprendista ad artigiano, in breve si trova ad essere titolare di un’impresa con due dipendenti. La ditta però non rende abbastanza, almeno per le sue pretese. Così si mette in società con l’amico Selis, diventando uno dei protagonisti dell’Arancia meccanica torinese.

Dopo la totale reticenza iniziale, Geraldi comincia a confessare. Ammette di conoscere Selis e di aver messo a segno con lui qualche colpo, compresa l’incursione in casa di Maria Albanese Gandini e della rapina nell’appartamento dell’ex assessore Silvano Alessio. A proposito di quest’ultimo, ammette: «L’abbiamo fatto una settimana fa, giovedì 21, in strada val San Martino superiore. I proprietari non c’erano, abbiamo immobilizzato i due domestici filippini ed abbiamo portato via un televisore, un videoregistratore e tre pellicce».

La rapina a Maria Albanese Gandini è datata invece 29 ottobre: tre uomini mascherati irrompono nel giardino della villa in strada Fenestrelle, poco distante da Reaglie. Con un fucile minacciano la donna, moglie di un commerciante all’ingrosso e la costringono ad entrare in casa. Da qui fuggono con un milione e mezzo in contanti e gioielli per circa 200 milioni. Prima di andarsene colpiscono la donna, rea di aver fatto scattare l’allarme collegato all’Argus.

Parla Geraldi, ma comincia a parlare anche Selis. Dopo la reticenza iniziale, il bandito originario di Orgosolo decide di collaborare con gli inquirenti. Sa che in questo modo potrà ottenere degli sconti di pena. E così snocciola i nomi di tutti i componenti della banda e anche dei ricettatori ai quali ha venduto la merce rubata. Tra questi vi è il titolare di un bar in via Garibaldi che si scoprirà fare parte di una struttura stabile di riciclaggio del materiale rubato. Gli inquirenti stabiliscono una vera e propria gerarchia tra i ricettatori che rappresentano per la banda una garanzia di finanziamento. Gioielli, pellicce, macchine fotografiche, televisori e apparecchi elettronici finiscono immediatamente a disposizione dei ricettatori e i rapinatori dispongono subito di danaro contante, per le esigenze del momento. In pratica, quando uno della banda ha bisogno di contante per affrontare una spesa o pagare una cambiale, propone un colpo. Qualcuno accetta, qualche altro no.

In tutte le incursioni compare sempre Mario Selis, mentre i complici ruotano: in una decina di colpi è spalleggiato da Franco Gisi e Raffaele Del Re che escono di scena il 19 febbraio 1985. In effetti, proprio quel giorno i due tentano un’impresa più grande di loro: assaltare da soli il supermercato Mega di Alpignano. Del Re viene colpito a morte da una guardia giurata, Gisi catturato. A quel punto Selis decide di sostituirli con Geraldi, Gianturco e Melchiorre.

Alla metà di agosto del 1986 si conclude l’inchiesta del giudice istruttore Mario Vaudano che spicca 19 mandati di cattura, dieci dei quali vengono notificati in carcere. Dietro alle sbarre ci sono già, schiacciati da una valanga di accuse, i sei componenti della banda che a turno hanno preso parte alla rapine (Mario Selis, il complice del duplice omicidio Vito Geraldi e i suoi compagni di aggressioni Franco Gisi, Vincenzo Cannonito, Nicola Gianturco e Fabrizio Melchiorre) oltre ai quattro ricettatori (Alessandro Azzano, Alessandro Revello, Alfonso Orlando e Michele Zapponi). Il provvedimento del giudice istruttore non aggrava la loro situazione, ma quella dei nove comprimari, tutti piccoli pregiudicati incaricati di custodire armi e rubare le auto per le rapine. Figure di secondo piano che hanno comunque avuto un ruolo nell’organizzazione di ogni colpo messo a segno.

Secondo gli investigatori, Selis e soci hanno razziato denaro, gioielli e refurtiva varia per oltre due miliardi di lire, ma dai ricettatori hanno ricavato soltanto qualche centinaio di milioni. Durante il processo, si ricostruiscono minuziosamente le imprese della banda: dall’assalto al ristorante Il Cartoccio a quello della birreria Excalibur, alle case di Nicola Pagano a Fiano e di Savino Bogni a Lombardore. E ancora quella in una villa di Almese che frutta un collier di diamanti del valore di circa 90 milioni. Un elenco di violenze e sopraffazioni, di minacce di stupro, di atti di libidine su una vittima, pugni e calci su chi tenta di opporre resistenza, colpi di fucile e di pistola esplosi contro ostaggi indifesi.

Ma anche l’incapacità da parte della banda di far fruttare il bottino, soprattutto quando si tratta di piazzare gioielli e pellicce. Il collier da 90 milioni lo offrono ad Alfonso Orlando, contitolare di un bar di via Garibaldi: «A noi pare bello, dacci 500 mila lire ed è tuo». Ma quello per tutta risposta: «Per me è falso, tenetevelo». Viene offerto ad altri, e dopo essere passato in diverse mani, alla fine è venduto a 35 milioni. Ma a Selis e Geraldi toccano appena un pugno di biglietti da diecimila lire. Episodi sconcertanti come quello del collier diventano di ordinaria amministrazione nelle udienze che si susseguono in tribunale.

Da La Stampa del 4 giugno 1987: «Durante l’interrogatorio dell’Orlando, Geraldi rivela: “Gli offrimmo anche videoregistratori e due pellicce di visone, ma non ne volle sapere. Alla fine, Selis, non sapendo più come disfarsi delle pellicce, le buttò via, in una strada dietro via Verrazzano. I colpi ci hanno fruttato sempre poco, dall’Orlando abbiamo avuto in tutto una cinquantina di milioni. Lui voleva solo l’oro”. Orlando, assistito dall’avvocato Dolores Molino, conferma: “Venti milioni li diedi in una volta sola. No, non accettavo l’argenteria che mi offrivano… cioè, ecco, forse qualche candelabro l’ho preso… Selis e Geraldi erano gentili, educati, due persone davvero per bene. Ho avuto un lume di dubbio che la loro roba fosse rubata. Ecco, pensavo che raccogliessero negli alloggi… Mi portavano l’oro già pesato, io controllavo, glielo pagavo 13 mila lire il grammo e lo rivendevo ai commercianti di via Barbaroux, guadagnandoci 100-200 lire il grammo”. Risposte reticenti anche dal socio di Orlando, Alessandro Azzano: “Avevo il dubbio che si trattasse di roba rubata… Io aiutavo l’Orlando a fare gli acquisti da Selis e Geraldi, prestandogli i soldi ad un interesse normale, il 10 per cento”».

Alla sbarra, anche quando si tratta di episodi inquietanti in cui è stata usata una violenza inaudita, Selis si difende: «Se ho sparato era soltanto per intimorire gli ostaggi. Non volevo fare del male». Persino gli ex compagni rinchiusi in gabbia «non nascondono un sorrisetto di scherno, mentre il difensore, avvocato Galasso, fa spallucce, sconsolato» (La Stampa, 27 maggio 1987). E quando il presidente Zagrebelsky domanda del colpo esploso al ristorante da Benito che trapassa due cosce ad un cliente, lui risponde: «Quel signore reagì: gli sparai, purtroppo e lo centrai alle gambe».

Per fargli svelare dove nasconde soldi e preziosi, Selis gli spara a bruciapelo un colpo di pistola alla coscia che trapassa entrambe le gambe, sfiorando l’arteria femorale. L’uomo si salva per miracolo. Il bandito si difende: «L’arma era difettosa». Ancora Zagrebelsky: «Ad Almese, sempre in una villa, picchiò la padrona». L’imputato: «Sì, perché lei aveva azionato la sirena d’allarme. Era una donna minuta, le diedi uno schiaffo». Precisa il giudice: «Già, provocando la rottura di un timpano e lesioni guaribili in 90 giorni». Il sardo non risponde.

A proposito della propria truculenza, così si esprime ai magistrati Geraldi: «Sapevo che non erano giuste le cose che facevo, le ho fatte per necessità… L’esigenza mi ha spinto a compiere questi brutti atti, mia moglie non ha mai saputo della mia doppia vita… Ognuno fa le sue scelte, io ho sempre agito senza trucchi, non mi piaceva mascherarmi, lavoravo a viso scoperto». Affermazione, quest’ultima, che viene smentita però dall’istruttoria. Nel corso delle udienze, si susseguono le testimonianze di coloro che hanno sperimentato la ferocia dei banditi.

Molte vittime sono rimaste in balia dei rapinatori per ore e tra queste vi è anche Barbara, una ragazza di Pino Torinese che, sforzandosi di non guardare gli imputati, racconta al presidente Zagrebelsky e al pm Caminiti: «Fui costretta a denudarmi e a subire le carezze di uno dei banditi. Erano tutti e tre mascherati (Selis, Geraldi e Melchiorre, ndr): ricordo che l’unico a comportarsi in maniera gentile, a tranquillizzarmi e a calmare i compagni era quello con l’accento sardo. Quello con i baffetti invece (probabilmente Geraldi, che stando alle parole di Selis all’epoca si era fatto crescere i baffi, ndr), non mi lasciava in pace. Per evitare guai peggiori, ho dovuto aprire la cassaforte, i rapinatori se ne andarono con tutti i gioielli e l’oro, ma non presero l’argenteria».

L’episodio più truculento risale al 1984 in una villa nel Canavese. Innervosito dai fischi di un merlo, rinchiuso in una gabbia in cucina, i rapinatori lo decapitano con una scure.

In aula, compare anche la proprietaria di una villa di Castell’Alfero (Asti), assaltata da Selis, Del Re e Gisi la sera del 19 dicembre 1984: «Hanno sparato al mio cane e a me», ricorda la donna. Che viene contraddetta dal capo della banda: «Non è esatto. Gisi mi puntò contro, per scherno, il fucile. Io scostai l’arma con una manata e partì un colpo. Però, in quel momento, la signora era in un’altra stanza, sotto la sorveglianza di Del Re». Quest’ultimo, all’epoca del processo, è già morto: come scritto in precedenza, lo ha ucciso una guardia giurata mentre tenta di rapinare il supermercato Mega di Alpignano.

Davanti al giudice Selis racconta, sempre a modo suo, anche il duplice omicidio: «Con Geraldi attaccammo la villa del dentista… Eravamo rimasti a guardare per parecchio tempo cosa facevano dentro. Avevamo visto una donna abbastanza robusta che stirava e un’altra donna. Non ci eravamo accorti che ci fosse anche un uomo. Io ho sfondato la porta d’ingresso a calci. Lo slancio mi ha fatto entrare di un passo e mezzo nell’atrio di casa. Stavo per urlare “fermi, questa è una rapina”, ma non ho avuto il tempo di finire la frase. Le parole mi sono rimaste in gola. È stato in quel momento che ho visto l’ombra di una rivoltella. Mi sono voltato ed ho urlato a Geraldi “via, via, c’è qualcuno, ci stanno aspettando”. In quell’istante sono stato colpito, il dolore era tremendo e cadendo ho sparato uno o due colpi. Non so dove, non miravo, non mi accorgevo nemmeno dove finivano i proiettili. Quando ho visto un’ombra dietro i vetri della porta, ho pensato: “Adesso viene qui e mi finisce”. E ho premuto un’altra volta il grilletto».

L’altra versione è quella del figlio Marco, che era in casa al momento dell’assalto, la cui testimonianza ha il conforto della perizia balistica: «Li abbiamo visti arrivare all’ultimo momento e ci siamo chiusi in casa. Abbiamo tentato di telefonare alla polizia per chiedere aiuto, ma non c’è stato il tempo. Loro urlavano: non si capiva bene cosa dicessero, ma era sufficiente per impaurirci. Avevamo chiuso la porta a chiave, ma quelli hanno tirato una rivoltellata contro il battente. Si sono lanciati sulla porta e la spinta è stata così violenta che il legno ha ceduto. Sono entrati».

Nel frattempo, il giovane consiglia alle donne di salire al piano di sopra, ma nessuna delle due lo ascolta. In quel frangente, Marco trova una rivoltella che la famiglia custodisce in casa. Si affaccia sull’atrio con l’arma in pugno. I banditi gridano, sparano, rompono ogni oggetto che si trovano davanti. Il ragazzo viene sfiorato da un proiettile e fa fuoco anche lui colpendo Mario Selis che sta davanti a tutti. Le due donne agonizzano al suolo, passate da parte a parte dai proiettili.

A giugno 1987, proprio mentre l’Italia torna alle urne regalando una schiacciante vittoria alla Democrazia Cristiana, per la banda torinese arriva la resa dei conti con la giustizia: il pm Stella Caminiti chiede l’ergastolo per gli imputati, accusati dei reati più gravi e pene esemplari per gli altri componenti: nella requisitoria usa parole dure nei confronti di Selis e Geraldi che si facevano chiamare John e Jerry, ma anche dei “manovali” che di volta in volta venivano reclutati e pagati a cachet. Ad agosto, la prima Corte d’assise di Torino condanna a trent’anni di reclusione Selis e Geraldi, ritenuti i più feroci del gruppo e responsabili anche dei due omicidi; 17 anni per Franco Gisi, 15 per Nicola Gianturco, 11 per Vincenzo Cannonito, 7 per Fabrizio Melchiorre. Condanne da un anno e mezzo fino a sette anni per i ricettatori che dalle scorribande di Selis e compagni hanno ricavato ingenti profitti.

Dietro alle sbarre, comunque, la banda della collina ci rimane per poco. Nel febbraio 1995 esce Gianturco, a fine 1996 torna il semilibertà anche Gisi, mentre addirittura dal 1992 il capobanda Mario Selis ottiene la stessa misura alternativa. In pratica, dal lunedì al venerdì, di giorno si reca al lavoro in cantiere e alle 22 rientra in carcere, mentre per il fine settimana gode del permesso lungo: uscita dalle Vallette la mattina del sabato e rientro alla sera della domenica. Sul finire degli Anni Ottanta, rinchiuso ad Aosta, aveva deciso di riprendere i libri in mano per ottenere quel diploma di scuola media che per trascuratezza non era riuscito a prendere prima. Aveva frequentato un corso di 150 ore, saltando solo qualche lezione negli ultimi giorni di giugno 1987 per essere presente in aula al processo. E proprio in tribunale racconta al giornalista Lorenzo Del Boca: «I libri sono stati un sollievo. Un motivo per non pensare troppo al disastro di cui sono responsabile. Il rimorso è tremendo. Ti assale di notte quando cerchi di addormentarti. Vedi le persone alle quali hai fatto del male: ti stanno davanti e non ti lasciano passare. Lo studio è fatica, ti tiene impegnato, ti fa anche capire tante cose sulle quali non eri più abituato a riflettere» (La Stampa, 15 giugno 1987).

Il pentimento gli vale la semilibertà. E per cinque anni riga dritto: lavoro tutto il giorno, la notte in cella e libertà nei week-end. Tutto apparentemente normale sino a sabato 5 luglio 1997, lo stesso giorno in cui la navicella spaziale Pathfinder sbarca su Marte e, per quelle strane concomitanze del destino, anche Mario Selis torna di nuovo sul suo pianeta privato, fatto di violenza e soprusi: dopo aver rubato una Ford Fiesta da un’autorimessa in corso Novara, si infila un passamontagna, impugna una pistola e all’ora di chiusura, intorno alle 19.30, irrompe nel Cra Panda Market di corso Svizzera. Dalle cassiere si fa consegnare una decina di milioni, poi le rinchiude in uno sgabuzzino. Dall’esterno un passante nota la scena e avverte il 113: una pattuglia incrocia Selis mentre sta uscendo di corsa dal supermercato. Viene rincorso a piedi dagli agenti e arrestato. Addio semilibertà.

Ma Selis non è il solo a non avere perso il vizio della rapina. Nel 1995 dopo un assalto al Banco di Napoli, finisce in manette anche Nicola Gianturco, uno dei banditi a cachet di Selis. L’uomo si fa scudo con un ostaggio e al termine di una violenta sparatoria con la polizia rimane sull’asfalto, colpito alla testa e ad un braccio. È costretto ad arrendersi. Viene condannato, nonostante i gravissimi precedenti, a soli cinque anni (ridotti poi a quattro con l’affidamento ai servizi sociali). Nel 1999, il pluripregiudicato, originario di Melfi, cappellino da baseball calato sulla fronte, parrucca e barba posticcia, assalta anche la filiale Crt di piazza Rebaudengo, a Torino. Ma viene sorpreso dalla polizia ancor prima che gli impiegati gli consegnino il danaro. A quel punto cerca di trovare una via di fuga, prendendo in ostaggio una dipendente della banca. Le punta la pistola alla testa ed esce, ma è circondato e preferisce arrendersi senza opporre resistenza. La pistola che consegna nelle mani degli agenti è un giocattolo. Con i poliziotti cerca di buttarla sul ridere: «Non avevo i soldi per comprarne una vera, allora ho preso questa».

A cadere in tentazione è anche Franco Gisi che nel 1997 finisce nuovamente in manette con l’accusa di aver rapinato tre banche nel Cuneese. È una storia vecchia come il mondo: i lupi perdono il pelo, ma il resto no.

Tratto da “Storie assassine” di Piero Abrate
edito da Ligurpress

Piero Abrate

Giornalista professionista, è direttore di Storie Piemontesi. In passato ha lavorato per quasi 20 anni nelle redazioni di Stampa Sera e La Stampa, dirigendo successivamente un mensile nazionale di auto e il quotidiano locale Torino Sera. E’ stato docente di giornalismo all’Università popolare di Torino e direttore del portale regionale di informazioni Piemonte Top News.

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