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I luoghi malfamati nella Torino dell’Ottocento dov’era meglio non avventurarsi

Anche la Torino del passato aveva i suoi luoghi malfamati nei quali era consigliato non avventurarsi, soprattutto se in tasca si avevano soldi, oppure gioielli e altri oggetti di valore. La principale tra queste zone era la cosiddetta “Siberia”: un’area costituita da un ammasso di catapecchie maleodoranti e situata dalle parti dell’attuale piazza Solferino, nella zona compresa fra via Cernaia, via Bertolotti e corso Galileo Ferraris. Quell’universo aveva preso forma nel 1862 quando, sul terreno dell’ex Cittadella, fu realizzata la piazza destinata a ospitare il mercato dei combustibili di piazza della legna, che dal 1869 assunse il nome di piazza Venezia e in seguito divenne l’odierna piazza Solferino.

Vi era fra l’altro il cosiddetto “prà dl margè” (prato del lattaio), dove pascolavano mucche del cui latte si diceva un gran bene: pare che potesse guarire i malati di cuore e mantenere le donne giovani e belle. Quelle mucche erano chiamate “tote Rostagn” dal nome del proprietario.

E vi era anche un rudere dove, in una nicchia, si conservava un antico diavolo, dipinto chissà da chi (qualcuno sosteneva che si fosse dipinto da solo): per tenerselo amico, gli abitanti della zona gli tributavano frequenti omaggi; e cercarono invano di salvarlo dall’oblio quando la Siberia fu rasa al suolo per consentire la costruzione di piazza Venezia, poi scomparsa anch’essa e sostituita dal Palazzo dei Telefoni.

L’altra zona malfamata era il Moschino: luogo così denominato in omaggio ai fastidiosi parassiti che vi abitavano, si trovava in odor di Po, fra corso San Maurizio e piazza Vittorio (oggi Borgo Vanchiglia): inaccessibile di notte perfino alla polizia, era un agglomerato di casupole oscene che offendevano “l’occhio, l’igiene, il decoro e il buon costume”. Soprattutto il buon costume: infatti, a fine mese, molti onesti cittadini si recavano colà a dilapidare il proprio stipendio in compagnia delle prostitute che albergavano da quelle parti. Anche a causa delle infezioni e delle malattie che vi attecchivano facilmente, il piccolo borgo maleodorante fu raso al suolo nel 1872; buona parte della sua umanità si trasferì a Porta Palazzo.

Nel passato, a Torino, una specie di Corte dei Miracoli nei cui confini non osava avventurarsi nessuno che avesse un qualche rapporto con la legge e con il buon senso, era l’odierna via Bonelli, che si chiamò dapprima Contrada Pusterla e poi Contrada dei Fornelletti (per via dei fornelli dove si lavoravano a caldo i bozzoli dei bachi da seta). Qui si aggiravano liberamente manigoldi d’ogni fatta, prostitute, mendicanti, storpi veri e storpi finti, tutti riuniti in una vera e propria organizzazione con tanto di capi, regole e gerarchie. Secondo un tacito patto, i tutori dell’ordine non vi potevano entrare dopo una certa ora e i delinquenti vi godevano dunque di una sorta di impunità.

In tempi più recenti (anni Settanta) era circondata da un’aura non proprio rassicurante anche la Galleria del Nazionale: uno stretto e un po’ claustrofobico collegamento che univa corso Vittorio Emanuele II a via Pomba. Si diceva che fosse facile farci brutti incontri ed era spesso rifugio per senza tetto e per gli abili manipolatori del “gioco delle tre carte”.

I gargagnan di via Porta Palatina

 Il giornale La Folla l’11 agosto 1901 scriveva: “Al 17 di via Porta Palatina è la famosa trattoria Coppa d’Oro, dove mangiano e bevono i gargagnan, gli uomini dalla faccia di bronzo che si lasciano mantenere dalle donne più abbiette del selciato. I gargagnan sono sovente delle furie, delle bestie umane che si sfogano sulla pelle delle donne che si frustano l’anima e il corpo per dar loro da mangiare. Qualche volta nella trattoria della Coppa d’Oro nascono scene spaventose. Chi grida, chi bestemmia, chi minaccia, chi agita il bastone e chi rompe tutto, piatti, bottiglie, bicchieri. Sovente si incomincia a ceffoni e si finisce a colpi di scranna. Le slibrettate, le prostitute libere, non munite del libretto sanitario le prendono, tacciono, si lasciano percuotere senza pronunciare una parola e si riversano sull’uomo, che qualche minuto dopo baceranno e ribaceranno, come iene avide di piantare i denti nel collo del bullo inviperito”.

E, ancora: “La via Conte Verde è il nido dei Flamba (postriboli) con le donne che si vendono per una lira come le passeggiatrici di via Porta Palatina, Bertola, Stampatori. Vi sono tre di queste case tollerate che rappresentano la vergogna sociale e tutte tre sono popolate dai barabba e dagli spostati del basso ceto”.

Massimo Centini

Massimo Centini

Classe 1955, laureato in Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Ha lavorato a contratto con Università e Musei italiani e stranieri. Tra le attività più recenti: al Museo di Scienze Naturali di Bergamo; ha insegnato Antropologia Culturale all’Istituto di design di Bolzano. Docente di Antropologia culturale presso la Fondazione Università Popolare di Torino e al MUA (Movimento Universitario Altoatesino) di Bolzano. Numerosi i suoi libri pubblicati in italiano e in varie lingue.

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