
6 Maggio 1949: un’intera città si ferma per onorare la scomparsa dal Grande Torino
Il 4 Maggio si avvicina. Sono passati 76 anni. In questi giorni di pioggia e di paura tremenda per le inondazioni e la furia dei fiumi, non è difficile pensare, soprattutto per i Torinesi che hanno già una certa età ed un cuore granata che batte, alla tragedia che colpì la città, e l’intero universo sportivo in quel giorno di pioggia di inizio Maggio del 1949. L’aereo, che avrebbe dovuto atterrare all’aeroporto dell’Aereonautica di Collegno e che trasportava la squadra del Grande Torino di ritorno da una trasferta infrasettimanale a Lisbona alle 17.05 si schiantò, per un tragico errore o per pura fatalità, contro il muro perimetrale del Convento dietro alla Basilica di Superga, sulla cima del colle, avvolto in quel momento da nuvole spesse.
Nella collisione morirono tutti gli occupanti dell’aeromobile: l’intera formazione titolare, le riserve, i dirigenti, i giornalisti al seguito, gli uomini dell’equipaggio. Come racconto nel mio libro “I Luoghi del Toro” (Yume Book, Torino, 2019) da quel momento sulla città scese un profondo silenzio, che culminò, un paio di giorni dopo (il 6 maggio) nella cerimonia imponente e tristissima dei funerali, celebrati, con tutti gli onori. Il corteo di bare, disposte su carri militari, uscì da Palazzo Madama, percorse Via Roma, Piazza Carlo Felice, Corso Vittorio Emanuele II, Corso Re Umberto, Via Alfieri, per giungere in Duomo, dove fu celebrata la funzione religiosa: “C’è chi, come mio padre, ricorda benissimo quell’emozione forte. La città ferma, i negozi e le fabbriche chiuse, il lutto, il silenzio, il pianto, il sinistro cigolio delle ruote dei carri, le bare in fila, un’interminabile fila. Il pianto dei ragazzi, degli uomini, colpiti, straziati nella loro passione. Il calcio era diventato una passione mondiale, un modo per le anime sconvolte di uscire dall’orrore bellico, l’ancora di salvezza, l’appiglio del nuovo orgoglio nazionale. Neppure il maturo Vittorio Pozzo era riuscito a celare il peso di quei passi accanto ai feretri, che lui sapeva ricostruiti alla meglio. Come se Roma oltre a perdere tutti i gladiatori, avesse perso le legioni e il loro generale. Così per Torino, così per Valentino e i suoi compagni. Tante parole sono state scritte, e tante lo saranno ancora, perché è difficile poter dimenticare, e chi non dimentica sente il bisogno di tramandare il ricordo. Quella squadra non era una compagine qualsiasi, era la più forte di tutte in quel preciso momento. Non possiamo, e non dobbiamo fare paragoni con avvenimenti o protagonisti odierni. Tutto rimane scritto alle 17.05 del quattro maggio millenovecentoquarantanove. Schiacciato, dal fuoco e dal sangue, contro il muro della Basilica.

In quel momento quegli uomini, quei ragazzi, sono diventati Mito, Leggenda da portare nel cuore per tanti, tantissimi che non li avevano più. Famiglie, parenti, bambini, improvvisamente avevano perso i loro cari, i padri, i fratelli, i figli. Un dolore ancor più straziante s’impadronì della gente, incredula, impotente, in un attimo orfana di chi amava, e amava per davvero: perché quegli eroi vincevano, giocavano e vivevano da uomini semplici tra la gente semplice, in una città semplice che li aveva adottati e cresciuti. Loro avevano ripagato l’amore rendendo famosa la città, portando nel mondo il suo nome e riempiendolo di fama e di gloria. Loro, insieme al loro presidente, insieme ai ragazzi e ai tifosi, avevano fatto, con umiltà e pazienza, con grinta e sacrificio, con fermezza e umanità il Grande Torino.
Quanti di noi hanno un parente, un papà, un nonno che ricorda i campioni del Grande Torino? Quanti hanno sentito raccontare storie di vita vissuta da chi, in qualche modo, ha avuto a che fare con i ragazzi di quella squadra, con quegli uomini che in un attimo hanno lasciato un vuoto enorme in tutta la città, in tutta Italia?
Spesso il racconto non ci soddisfa, non basta a integrare tutto quello che vorremmo sapere, tutto quello che manca per riuscire a costruirlo in noi, quel ricordo. Abbiamo, spesso, troppo poco. Foto in bianconero, ma la vita reale è a colori, e le immagini colorate alla meglio da pittori pur bravi e fantasiosi non ci possono bastare. Anche solo fosse per il prato del campo da calcio. Sempre grigio, scuro nelle foto, nei documentari. Ma quanto erano verdi i campi su cui correvano quei campioni? Quanto erano granata le magliette sudate, quanto bianchi quei numeri, quanto variopinti i colori della folla o azzurri gli occhi di capitan Valentino? Questo ci manca, come ci manca il rosa o il giallo della maglia di Coppi, o il rosso violento degli incendi provocati dalle bombe in città. Quanto mancano i colori nei racconti che sentiamo o abbiamo sentito da piccoli?
Non riusciamo nemmeno a pensarle quelle vite a colori. Forse per questo quelle foto sono diventate tristissime anche se ritraggono momenti felici. Non ci riusciamo ad addentrare molto di più in quel mistero che era il Grande Torino, siamo come frenati dal senso di lontananza che ci impongono quelle immagini. Anche nei filmati dell’epoca, quando rivediamo le trame di gioco, i gol, con quel pallone che rotola lento, pesante, scurissimo, o si insacca in reti artigianali, superando portieri tutti neri e goffi, pur rendendoci conto della scarsità dei mezzi e della velocità di ripresa non reale (a volte velocissima, spesso rallentata) ci sembra tutto irreale, tutto distante e filtrato dal tempo. Pur sapendo che non è così, io stesso, che ho giocato con quei palloni di cuoio marrone, e ho corso su quei prati, ed ho visto allenamenti al Filadelfia, continuo a pensare a tutta quella storia granata in bianco, nero e grigio, come se fosse qualcosa di non veramente successo, come se il tempo avesse portato via anche l’anima oltre al colore delle cose. Rimane il silenzio, il dolore riflesso e un grande alone di leggenda che riempie il cuore.

Allora andiamo ogni anno a Superga, a ringraziare, a pregare, a fare un sacrificio per chiedere qualcosa a quei ragazzi nel luogo in cui hanno perso la vita, tutti assieme, nello stesso istante, contro lo stesso muro. Il minimo nostro è di andare insieme in quel luogo, andare a pregare e onorare quei morti e la nostra stessa memoria. Il compito nostro, di tifosi, di uomini, di cittadini, è cercare in quel bosco la forza e l’orgoglio che proprio in quella scarpata si sono schiantato ed è andato perso. Contro il destino, la nebbia, la pioggia e il fango, contro il fuoco e lo schianto possiamo e dobbiamo lottare. Se non ci riusciamo molto di noi sarà travolto e dimenticato, come vorrebbe chi non ha voglia di fare fatica, di salire la china, di perdersi e ritrovarsi nel bosco.
Allora andiamo ogni anno a Superga, in una commemorazione triste e raccolta, con una Santa Messa cui partecipano la squadra e la società intera e in pratica e tutto il mondo granata, con qualche parente dei campionissimi, con giornalisti e vecchi soci e qualche ex giocatore. E ci stringiamo intorno ai ragazzi e al loro ricordo, che lentamente sta svanendo, generazione su generazione. Rimangono tante parole, gli occhi lucidi davanti alla lapide, l’emozione del capitano quando scandisce i nomi dei defunti, quando si rende conto di essere erede di una leggenda. Qualcuno capisce, qualcuno no. Per molti è una gita, per tanti un pellegrinaggio. C’è chi va per farsi vedere, e chi per nascondersi tra la folla e soffrire in silenzio. Ma sta di fatto che sul colle, dietro la Basilica, di fronte alla lapide, si va ancora in tanti. Qual è il motivo spesso non si comprende, c’è chi lascia il lavoro, chi si prende le ferie, chi ci porta i bambini. Il 4 maggio è un bisogno a portare tanta gente lassù tra le nubi (non c’è mai il sole quel giorno), il bisogno di continuare a credere in qualcosa. Ognuno, quel giorno, ritrova il suo prato, il pallone che rotola e se lo prendi di testa ti fa male la fronte, ripensa ai suoi gol, alle parate che ha fatto, e alla vita passata a cercare la rete, agli amici infangati, alle scarpe sporche, le vesciche nei piedi. Ognuno, quel giorno, rivive momenti allo stadio, le gesta degli idoli, che arrivano in pullman e sembrano noi, ripensa ai suoi giorni, e ai giorni lontani di quei ragazzi dal destino segnato, ed è solo, sul prato infinito, con loro. Val bene un viaggio su quella cremagliera, val bene l’abbraccio di un amico sincero, il sapore dell’acqua di quella fontana. La Basilica è austera testimone e tempio perfetto per la gloria del Mito. La preghiera arriva prima se la facciamo con i cuori più vicini al cielo.”
Claudio Calzoni
Dal libro: I Luoghi del Toro, Yume Book, Torino, 2019