
Sant’Antonio di Ranverso e gli affreschi sulla vita medievale piemontese di Giacomo Jacquerio
“Al via i lavori nel complesso monumentale di Sant’Antonio di Ranverso. Gli interventi riguardano il restauro e la riqualificazione funzionale degli edifici dell’Ospedaletto e di Cascina Bassa e sono finalizzati all’ampliamento dell’offerta turistica del sito con la realizzazione di un punto di ristoro (caffetteria/ristorante), di un ampio parcheggio per i visitatori e di una foresteria a servizio di chi percorre gli itinerari dell’antica via Francigena”. Così un articolo della testata ValsusaOggi annuncia la partenza dei lavori di ristrutturazione di uno dei più importanti luoghi di fede e storia in Piemonte: l’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso. Si tratta di fondi assegnati dalla Regione alla Fondazione Ordine Mauriziano, che faranno della “Precettoria” la meta turistica di viaggiatori della cultura e della fede e rilanceranno altresì la storia centenaria del complesso di Buttigliera Alta. Il restauro sarà concluso per la fine del 2026 e si colloca, tra l’altro, nei festeggiamenti per i seicentocinquant’anni dalla nascita del noto Giacomo Jacquerio.

Giacomo Jacquerio (1375–1453) è stato uno dei principali rappresentanti della pittura tardo gotica in Piemonte. Nato a Torino, ha lavorato in diverse località, tra cui Ginevra e la Savoia, e ha collaborato con importanti figure artistiche del suo tempo. Pochi lavori dell’artista sono sopravvissuti al tempo, tra questi vi sono quelli della Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso, importanti, oltre che per la loro bellezza, anche per la rappresentazione della quotidianità della vita medievale piemontese. Tra le varie tematiche: alcuni episodi della vita di Sant’Antonio Abate, le scene di vita contadina, l’Annunciazione e la salita al calvario. I colori e l’intensità trasmessa dagli affreschi sono tali che si comprende immediatamente la capacità pittorica ed emotiva del grande Maestro.
Le prime notizie dell’abbazia sono del 1156, ma il luogo emerge dalle cronache ufficialmente nel 1188, quando Umberto III di Savoia concesse quei campi in uso ai canonici regolari di sant’Antonio di Vienne, un ordine monastico i cui cavalieri venivano chiamati “Cavalieri del fuoco”, perché curavano una malattia particolare, che, per il dolore che procurava e le manifestazioni fisiche, aveva molto a che fare proprio con il fuoco.

Si trattava dell’ergotismo, una intossicazione causata dall’ingestione di cereali contaminati da un fungo chiamato Claviceps purpurea, chiamato anche “segale cornuta” per gli sclerozi, forme allungate che sembrano corna, che il fungo produce. Il micete genera alcaloidi tossici, come l’acido lisergico (base anche dell’LSD), che possono avere effetti gravi sul corpo umano, come l’inibizione del sistema nervoso e cardiaco, oppure procurare visioni, percezioni alterate, improvvisi attacchi di follia. L’ergotismo era conosciuto come “fuoco di Sant’Antonio” e causava sintomi come allucinazioni, convulsioni, dolori brucianti agli arti, intorpidimento e, nei casi più gravi, cancrena. Non era raro vedere, in epoca medievale, persone senza arti e poco lucide che si aggiravano per le città alla ricerca di cibo, anzi, erano così tanti, che la ricerca di una cura era diventata una missione di primaria importanza.
I monaci dell’abbazia, che dipendevano appunto dalla chiesa principale di Saint-Antoine-l’Abbaye, nell’Isère, in Francia, si mantenevano, così come altri ordini, tramite la coltivazione delle terre e il pascolo. Presto divennero una potenza economica, soprattutto per l’ubicazione del complesso, situato lungo la Via Francigena Tra l’altro il simbolo da loro scelto, che svetta anche su una colonna esterna di Sant’Antonio di Ranverso, è il tau, una croce a forma di “T” che rappresentava anche una strana stampella, oggetto usato da chi contraeva il “fuoco di Sant’Antonio”.


Il nome Ranverso deriva da “Rio inverso”, una fusione di parole che si riferiscono a un ruscello situato a nord, in una posizione ombrosa. Questo contrastava con “indritto”, che indicava un luogo esposto al sole, a sud. Quel ruscello oggi si chiama Bealera di Rivoli.
Anche se la tradizione della cura dell’ergoitismo è arrivata fino a noi, dobbiamo ammettere che l’informazione è stata desunta dalla presenza riconosciuta di maiali, che venivano appunto allevati per prendere il grasso che anche in Francia si usava per la cura di alcune malattie tra cui l’ergotismo. Infatti i documenti non citano in realtà nessuna notizia sui malati ospitati, sui metodi di cura, sulle modalità secondo le quali i medicinali venivano preparati. Certo è però che ci fosse un ospedale, fondato nel 1188 (e quindi subito) dai monaci dell’Ordine degli Antoniani.

Questo ospedale, di cui oggi rimane solo la facciata, aveva una funzione importante, l’accoglienza e la cura dei pellegrini che percorrevano la Via Francigena, un’ospitalità particolarmente importante in quanto consentiva anche di isolare i malati. Nel caso di malattie infettive questo comportamento, estremamente moderno, aiutava a contrarre e circoscrivere l’azione dei virus. Nel XV secolo la Precettoria svolse un ruolo importantissimo anche per la cura della peste, fungendo anche da sbarramento per coloro che, infetti, arrivavano dalla Francia.
Lo stile gotico del complesso, le terrecotte, le sculture dei capitelli e delle mensole, così come gli affreschi interni, concorrono a formare un luogo leggendario e mistico, protetto dalle scene che svettano dalle pareti, come quella dei contadini che catturano i maialini, che sembrano quasi inciampare sulla sommità di una porta.
Probabilmente, durante la tradizionale festa della Candelora, a febbraio del 2027, si potrà ammirare la “nuova” Precettoria, riportata forse a quello che era nel medioevo.
Testo di Katia Bernacci
Fotografie di Marino Olivieri ph